Take That in concerto a Milano lo scorso 12 luglio 2011
Il vialone che porta a San Siro, lo stadio mitico che dagli anni Settanta ha ospitato leggende come Jackson e Madonna, U2 e Bob Marley, pullula di ricordi. Le trentenni di oggi, che nel ‘95 strepitavano a ogni visita italica dei Take That, li chiamano ancora per nome, Mark, Robbie, come se li conoscessero di persona da una vita. All’interno, uno striscione che parafrasa una vecchia hit sintetizza tutto: We Never Forgot. Ebbene sì, il meccanismo frullatutto del revival riporta in auge anche una boy band degli anni Novanta e lo stadio si riempie, come forse nessuno si aspettava. In Inghilterra i 5 attirano folle oceaniche, non solo ex teenager. Ma da noi? Con un disco andato benino e nessun battage televisivo i Take That si possono permettere uno show kolossal con tanto di robot gigante che testimonia con i suoi movimenti il “Progress” della band: da Everything Changes a Kids in poco meno di 2 ore passano 18 anni, tanti ricordi per il pubblico (che impazzisce soprattutto per il ritrovato Robbie Williams) e tutto sembra essere inghiottito da un “volemose bene” che neanche loro si aspettavano. C’era sostanza? Forse no, non può essere che un disco come Take That And Party abbia prodotto tutto questo. Li si viene ad osannare per quello che hanno rappresentato, per come si sono riproposti, con la coda tra le gambe, quando la carriera del solista due anni fa si stava un tantino appannando e quando il Gary Barlow (tiranno mangiatutto di un tempo) si è messo da parte e ha portato il gruppo intero nella fase creativa. Che genera nuovi hit, meno banali, pop perfetto per nostalgici e nuovi adepti. Per questo fa un po’ sorridere come Williams abbia ancora bisogno di ricavarsi un set tutto suo nel megaset, con l’energetica Let Me Entertain You e la favolosa Angels. È più significativo applaudirli quando nel finale, senza esitazione, accennano all’appropriata No Regrets, Nessun Rimpianto. La fanno loro e ci credono tutti. Prima di loro, insolita apparizione dei Pet Shop Boys che nell’incredulità generale hanno accettato il ruolo da opener, anche se appartenenti a una generazione precedente con un’illustre storia. Qui in Italia (ricordate Paninaro?) hanno sempre avuto un mercato privilegiato ma forse l’acclamazione dello stadio, dispersiva e distratta, non rende loro giustizia. Hanno fondato un genere e anche i neofiti si ritrovano a ballare. Se A Vida E e Suburbia divertiti. Ci aveva visto bene proprio Robbie, che nel 1998 li volle in uno dei suoi album di maggior successo.
CHRISTIAN D’ANTONIO