Vi avevamo parlato dei Sonatin Jazz Funeral, la band che è al debutto con un album prodotto da Tippin’ The Velvet e che sta incuriosendo non solo i circuiti musicali della loro Napoli.
Abbiamo avuto l’occasione di parlare del disco con Luigi Impagliazzo, il 25enne cantante e autore della band per farci spiegare da cosa arriva il loro mix di sound rock e jazz…e molto altro.
Come mai un gruppo al suo esordio non punta alla massa con canzoni più semplici?
È il npstro esperimento con la forma-canzone, cioè racchiudere in quei pochi minuti tutto quello che ci va. Ci interessava esordire con un album internazionale nei contenuti, per questo canto quasi sempre ininglese. Magari i prossimi non saranno così. Ci interessa la contaminazione linguistica, il limite è solo mentale. Desert Shore di Nico degli anni 70 è un riferimento per me. Una tedesca che canta in inglese e ci mette tutto il suo retaggio, tutto il Wagner e il Lutero che c’era in lei.
C’è una canzone nel disco che ha temi ecologisti, che cosa ti colpisce di queste vicende?
TYFED significa Thank You for Every disaster, ed è una presa in giro amara, perché io davvero ho perso un padre per danni dall’ambiente. È il pezzo più scopertamente politico tra tutto quello che faccio e anche quello che non faccio, perché anche il non fare è politica. Io lo intendo come un attacco all’intero sistema affarista che ha ultima conseguenza la creazione del rifiuto dell’insostenibile. Cioè chi produce scarti va a riempire altri territori che hanno spazio. Si tende a nascondere lo scarto nei territori disagiati, in Africa in Sud Italia. I porti e le autostrade di alcune città africane sono costruiti sopra i rifiuti italiani. La grande assurdità è che sono dei danni che causano morti che ci colpiscono da vicino. Uno dei pezzi più danzerecci del disco è dedicato a questo tema.
Invece Second Line che è uno dei brani di punta?
È molto più incentrato sulla musica, all’interno dei pochi minuti c’è tutti fisarmonica a chitarra acustica tipo Noir Desire e un’orchestrazione più radicale. I musicisti con cui ho la fortuna di comporre i Sonatin hanno contributo a contaminarmi. Maurizio Milano suona la batteria, Gen Cotena la chitarra e Pierluigi Patitucci il basso, anche se i confini sono molto labili.
Come lavorate assieme? Come nasce un vostro pezzo?
Sono molto figurativo quando compongo come parlo di una sceneggiatura del film. Il difetto o il pregio di come siamo è che partoriamo pezzi con grandi happening e l’urgenza di non annoiare, è la nostra richiesta di attenzione.
Deriva dal fatto che gli emergenti spesso non emergono?
In generale è stato sempre difficile, tutti hanno qualcosa da dire e tutti dicono che è fondamentale. Io dico che quello che faccio ha un valore, qualcuno è vincitore in questa lotta. Non deve essere percepita però come lotta, ho deciso che da adesso in poi faccio una testimonianza e la incido. Chi mi ascolta oggi o domani saprà e l’importante è continuare a fare artigianato alla maniera nostra senza dover fare chissà cosa. È anche cambiata l’idea della band nel corso del tempo, per entrare in alcuni meccanismi devi fare cose in cui non credi pienamente. Quindi meglio essere buoni individui.
CHRISTIAN D’ANTONIO