La chitarra come strumento che muove le scelte, la vita, la creatività. Roberto Fabbri, romano classe 1964, è forse conosciuto più all’estero che in Italia per la sua dedizione a tutto quello che ruota intorno al guitar world: ha scritto libri, spartiti, storie musicali di altri artisti, si è fatto portavoce della divulgazione dello strumento popolare per eccellenza con la sua musica che di popolare ha ben poco, considerando la complessità e la minuziosità con cui cura i suoi brani.
Sony Classical è oggi l’etichetta di distribuzione dell’artista, che il 19 marzo si esibirà nella sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Con lui il guitar quartet and the Four Flowers String Quartet, chitarre e archi per presentare i pezzi del disco Nei Tuoi Occhi.
Lo abbiamo incontrato per saperne di più.
Come nasce un tuo disco?
Suono da solo, compongo anche le parti di altri strumenti, ma questo è abbastanza comune per chi si cimenta con la musica classica. Lo faccio ormai da 30 anni e il disco precedente a questo si intitolava No Words proprio perché non credo che per la mia musica ci sia bisogno di parole. È la chitarra che la guida.
Come ti sei avvicinato alla musica?
Nel 1986 ho scritto i primi libri, su Eddie Van Halen e Path Metheny. Significherà che ascolto di tutto! Ma poi mi sono dato alla composizione e anche alla docenza. Insegno chitarra classica a Terni e Latina. Artisticamente sono uscito dall’Accademia di Santa Cecilia di Roma, nel periodo della cosiddetta scuola romana, nel periodo in cui spopolavano Carlo Carfagna e Mario Gange, che credo sia stato il più grande chitarrista italiano.
Come mai la tua carriera è decollata all’estero?
Nell’album che sto promovendo, Nei Tuoi Occhi c’èp un pezzo Il Cavaliere Errante che è ispirato alla figura di Don Chisciotte, che accosto ad Andrés Segovia, il maestro spagnolo che è scomparso 25 anni fa. Tutto è nato dalla commissione che mi è stata proposta per il festival di Madrid a lui dedicato. È abbastanza singolare che un italiano abbia fatto un tributo a un eroe nazionale spagnolo.
Noti differenze tra come è trattata la cultura qui e all’estero?
Beh, devo dire che in Italia domina il pop e c’è forse poco coraggio. Se ci fossero occasioni divulgative grandi ci sarebbero più persone interessate anche ad altre proposte. Ad esempio, la tv spagnola ha mandato il concerto che ho fatto per Segovia per intero la domenica mattina. Sarebbe impensabile da noi.
Insegnando ai ragazzi cosa hai scoperto?
Che la musica supera gli steccati e abbatte le differenze di età. Ci sono molti giovani interessati a quello che ho da dire, forse anche perché mi sono sempre mosso nell’ambito della forma-canzone, nel senso che compongo brani mai lunghissimi, poi magari dal vivo li unisco. Detto questo, l’immaginario collettivo vuole il dualismo piano/chitarra, il primo strumento colto, la seconda più pop, ma non è sempre così.
Eppure anche la tradizione italiana deve molto proprio alla chitarra.
Sì è vero, basti pensare alla musica napoletana o a quella romana, che però credo abbia meno valenza globale. In ogni caso a volte è proprio la tradizione a costituire un’eredità ingombrante, che però si può facilmente superare.
Come ti vengono in mente i titoli delle composizioni?
Per questo disco ho deciso di raccogliere tutte sensazioni molto evocative e sognanti. Come Rainbow Song o 02.00 A.M., che è molto lunge e notturna. Poi c’è Choronì, che si richiama alle sensazioni che ho provato sulla spiaggia caraibica che porta lo stesso nome. Il titolo, che contiene le uniche parole della mia musica, nasce quasi contemporaneamente alle note.
Hai qualche ambizione che vorresti realizzare?
Ho appena finito un tour come opening di Franco Battiato ed è stato un abbinamento interessante, perché per location e pubblico che lo segue era particolarmente adatto alla mia proposta. Spero di farne di più e magari spingermi in qualche collaborazione. Spesso mi si dice che le mie composizioni hanno sapore cinematografico e non sarebbe male iniziare a fare musica per film.