Lukas Graham è il nome della band che sta spopolando in queste settimane dall’Australia all’America, forte delle 4 settimane al vertice della UK chart del singolo “7 Years”. Vengono dalla Danimarca (un successo simile prima di loro in patria era stato messo a segno solo dagli Aqua di Barbie Girl) e non è un dettaglio trascurabile. Alla vigilia di un tour americano di un mese e mezzo li abbiamo intercettati a Milano per farci raccontare come ci si sente a essere la nuova sensazione del pop. A parlare è soprattutto Lukas, il leader e compositore del quartetto.
Il vostro secondo album è in uscita il primo aprile ma già si parla di voi ovunque, come ci si sente?
Questo disco è come volevamo fosse il primo album, ma con un suono e una maturità più adatta ad andarlo a cantare in giro per il mondo. Non ci rendiamo conto del cambiamento perché vogliamo rimanere coi piedi per terra. E se qualcuno di noi si lamenta per il cibo tutti gli altri rispondono: e non è la vita che volevi?
Volevate essere famosi o aver successo?
Mai pensato a essere famosi, siamo anche abbastanza schivi. Poi è successo che la musica ci ha portato in altro ed è uno scambio vicendevole col pubblico, perché all’improvviso tutti ti conoscono e i manager diventano più carini con noi. Non ci pensavamo affatto alla popolarità. Parlare con i giornalisti e pensare che quello che diciamo verrà stampato in tutte le parti del mondo è la cosa più suggestiva di tutto ciò.
Tu Lukas vieni da Christiana, la comunità hippie di Copenaghen, dove tutti vivono in comune e senza costrizioni. Come ci si sente a vivere il mondo oggi con la popolarità?
Mi ha formato molto, perché la comunità era auto-gestita ed ero fin da bambino abituato alle critiche che arrivavano da fuori. Non sono un musicista con un training classico, quindi quando arrivano le critiche della stampa a me non frega molto. Ci sono abituato.
Verrete a suonare in Italia?
Stiamo pensando di fare qualche data a giugno, l’Italia è proprio come ce l’aspettavamo, la patria indiscussa del buon cibo. Stiamo andando ovunque e mi sento tornato bambino, quando i giorni erano lunghissimi. In poco tempo abbiamo attraversato tutti i continenti e cambiato fusi orari e cibi. Se dovesse finire domani, c’è da dire, per noi sarebbe lo stesso. È stato bello.
Christian D’Antonio