I Lacuna Coil sono la band italiana più famosa all’estero. E si sente. Nel modo in cui si concedono alla stampa, con un ritmo serrato di interviste e molta attenzione all’immagine, con tanto di embargo date dettate dalle uscite estere.
Ora che Delirium, il loro nuovo album, è uscito in tutto il mondo vi possiamo raccontare del nostro incontro con Cristina Scabbia e Andrea Ferro. Il mercato italiano per la band è importante, vale il 25% della loro totalità di business. Sono per dirla in breve, famosissimi in Usa, Canada e Gran Bretagna. In Italia sono considerati glorie nazionali e sono qui per rivedere il proprio pubblico con la partecipazione a due festival rock (Rugby Sound Festival a Parabiago il 24 giugno e Piazzola sul Brenta il primo luglio).
Come vi sentite a tornare in Italia dopo gli ennesimi trionfi all’estero?
Faremo due date da assaggio per questa estate, e poi andremo in Asia. Per noi è sempre strano
avere attenzione in Italia perché eravamo prima la sensazione-rock all’estero. C’è mancanza di cultura rock metal in Italia. Abbiamo visto inversione di marcia, però. Ci hanno invitato a moltissimi eventi negli ultimi anni e ci siamo resi conto che si è aperta molto.
Avete anche fatto il primo maggio a Roma l’anno scorso…
Ci hanno invitati perché c’era una direzione più aperta a tutti e meno politicizzata. Volevano anche un gruppo più rock per parlare a un pubblico variegato. Non abbiamo accettato certo per il cachet ma per una sfida e una promozione presso un nuovo pubblico.
Che avete scoperto?
È bello essere gli elementi diversi. Ci sentiamo un po’ i primi ad aver fatto delle mosse. Ora tanti artisti italiani cercano di andare all’estero e scrivere in inglese, cercano di uscire dai confini nazionali.
Vi sentireste di suggerire a un collega il vostro percorso?
Siamo assieme da 20 anni e siamo solo noi che facciamo successo all’estero. Nell’underground ci sono delle esperienze di italiani che vanno all’estero e fanno tour, ma per avere risonanza in patria devi arrivare su Billboard e avere quel tipo di esposizione. Direi che al momento non ci sono le condizioni perché questo avvenga con questo genere, da italiani, in un’altra nazione.
Perchè avete intitolato Delirium un album nuovo, che è il primo autoprodotto?
Abbiamo sempre avuto il controllo artistico ma questa volta abbiamo fatto tutto da soli, nel senso che non ci siamo affidati a un produttore esterno. E abbiamo riversato nel disco le nostre sensazioni di quando siamo stati nei manicomi abbandonati del Nord Italia. È nato un disco che è un “posto” per tutti quelli che si sentono ai margini. Volevamo dire anzitutto questo, raccontare lo stato di abbandono di un luogo che è molto di più.
Come ne siete usciti?
I manicomi ci hanno ispirato. C’è un manicomio in Nord America che è considerato il più infestato del mondo. Il primo pezzo del disco, The House of Shame, l’abbiamo utilizzato proprio per descrivere la sensazione che si prova a entrare in un luogo simile. E invece l’ultima canzone, Ultima Ratio, è la fuga che si cerca di guadagnare, anche se non si capisce dove e come finisce.
Dal vivo come siete oggi?
Non abbiamo mai suonato diversamente dal disco quando abbiamo fatto i live. Anzi, qualcuno ci ha detto che non si aspettava tanta pesantezza dal vivo, nel senso che non ci addolciamo per rendere le canzoni più piatte, abbiamo molta interazione, energia, ci siamo molto dati col pubblico.
Il concept del vostro nuovo tour sarà coerente con quello che avete inciso su disco?
In fase live costumi e scenografie saranno in tema. Ci sarà da amalgamare il tutto con il vecchio repertorio. A Manila e Shanghai pensiamo di avere per questi festival un cambio di scena, nel senso che vogliamo presentare il disco in un momento determinato. Lo spettacolo ha un’emotività diversa rispetto al disco che ascolti in cuffia in casa e va presentato bene.
Chsristian D’Antonio