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testata giornalistica – reg. Trib. terr. n. 2/2010

DJANGO DJANGO, ART BAND AL RITMO TRIBAL

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DiChristian D'antonio

Nov 29, 2012

Ci sono pochi concerti in cui si ha la sensazione di essere davanti a qualcosa che esploderà di lì a poco. A noi è capitato ascoltando dal vivo per la prima volta in Italia i Django Django che forse non avranno mai fama commercialmente intesa ma sono sicuramente sull’orlo di una svolta per la loro carriera. Una svolta che li ha portati già in patria a essere degli sconosciuti “di cui non importava niente a nessuno fin quando non abbiamo fatto un disco” a dei beniamini della critica. Hanno avuto una candidatura ai Mercury Prize (il premio più prestigioso nella nativa Gran Bretagna) e si preparano ad andare in tour sotto la “protezione” degli NME Awards. La loro musica è indefinibile e proprio per questo ha catturato il popolo “cool” dei programmi notturni e di youtube. Immaginate i Beach Boys su un tappeto elettronico il tutto condito da drumbeat che più afro non si può. Sembra davvero strano ma funziona benissimo su disco (appena uscito) e soprattutto dal vivo. Acclamatissimi inaspettatamente da noi, hanno già un singolo famoso (Storm) e si preparano a lanciare altri due pezzi bnizzarri dal disco. Default, che ha già un video alla Take On Me e che è molto più corale rispetto al precedente, e Waveforms, molto intrigante con i suoi ululati da richiamo da foreste electro-pop. Modern Classic li ha chiamati il Guardian. Audace, ma rende l’idea. Sono passati da Milano per un concerto sold-out al Tunnel e li abbiamo intervistati sul tourbus. A parlarci sono stati Tommy Grace che si definisce un synth operator, e Dave MacLean, il batterista.

Come vi siete conosciuti e come avete iniziato?

Noi due siamo scozzesi e gli altri sono a Londra. Ci siamo conosciuti in una art school e solo dal 2009 abbiamo deciso di fare musica assieme. Per esibirci abbiamo chiamato il bassista Johnny perché a noi piace fare tutto dal vivo. Siamo ormai tutti impiantati a Londra da 5 anni, cerchiamo di prenderci il meglio della città. Abbiamo lavorato nel campo dell’arte e del design quindi è una città che offre molto anche per quello.

Tutti nell’ambiente si appassionano a definirvi, voi che dite?

Non sappiamo, ci piace molta musica e indipendentemente da quella che facciamo ci immergiamo in dei lunghi ascolti dagli anni 40 ad oggi. Tutto ciò si riflette in quello che scriviamo. Ovviamente ci sono delle preferenze, chi di noi ascolta i Beatles e i Beach Boys poi si confronta con chi sostiene l’hip hop o il sound Motown. Non c’è alla fine un pezzo che ci contraddistingue, anche nel disco ogni canzone è molto diversa.

Sicuramente un tratto distintivo è il sound della batteria. Siete una vera drumband e nella vostra bio c’è scritto che il leader è il batterista.

In verità Dave è il produttore, quindi suona il suo strumento e poi produce pure ma non è che sia il leader. Noi ci vogliamo migliorare sempre e speriamo che il nostro metodo di lavoro sia sempre così: nel momento in cui scopriamo nuove tecniche torniamo su quello che abbiamo inciso e lo rifacciamo. Dave è quello che a un certo punto dice “basta, va bene così” altrimenti il processo non avrebbe mai fine.

Di che cosa parlano i vostri testi?

Non abbiamo fatto un discorso unico per le liriche i questa band, meglio osservare e riportare. Ci piacciono gli scenari buffi, la contrapposizione di un ragazzo triste in mezzo a una pista da ballo piena di gente o la frenesia delle serate da indianata. Ci sono anche dei flash fuori luogo, perché spesso ci sediamo iniziamo a bere qualcosa e componiamo storie e poi ci rendiamo conto che dobbiamo cambiare i testi perché sono a luci rosse. Ma ci piace divertirci e non essere troppo impegnati nei brani.

Cosa ci vuole per essere ricordati in un momento di grande frammentazione del mercato musicale?

Crediamo che i capelli rossi e gli occhiali siano un bel punto di partenza! Non lo sappiamo in verità. sappiamo che non ci sono più band dal successo planetario come un tempo ma molti artisti che ce la fanno a emergere anche grazie al web. Ma specie in Inghilterra il troppo successo non è molto perdonato, c’è sempre qualcuno che nel campo artistico ti osanna e dopo un po’ vuole buttarti dal piedistallo. Non mi meraviglierei se questo succedesse anche a noi, ne abbiamo viste tante di band che hanno fatto questa fine. L’ultimo grande fenomeno sono stati gli Arctic Monkeys. E poi forse i Radiohead, che hanno volato sopra tutti perché si sono ripresi il controllo della loro musica.


Vi interessa la percezione che la gente ha di noi?

Ci dicono che siamo cool ma basterebbe guardare le nostre foto per scoprire il contrario! È molto facile per artisti britannici fare colpo perché se una radio o un giornale parla di te di botto sei eroe nazionale e tutti pensano la stessa cosa di te. Ma in America è diverso, lì sì che puoi avere ancora una lunga carriera, perché gli americani ci mettono tempo per apprezzarti. Le voci si diffondono in maniera più lenta in un paese grande.


Ora che vi siete fatti conoscere come sarà il prossimo passo?

Non ci sentiamo troppo nervosi perché dopotutto la musica è quello che vogliamo fare e speriamo di riuscire a farla come vogliamo noi, ovviamente il primo disco è stato molto controllato da noi, nessun produttore esterno ci ha detto cosa fare ed è venuto fuori un mix di cose che ci piacevano tutte assieme. C’è molto di tutto il nostro background ed è stata anche una grande esperienza formativa. Abbiamo iniziato a conoscere strumenti e oggetti tecnologici di cui non avevamo molta conoscenza. Ma in ogni caso vogliamo che tutto quello che ci sta accadendo resti fresco, quindi faremo un secondo disco molto in fretta.
CHRISTIAN D’ANTONIO

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Christian D'antonio

Christian D'Antonio (Salerno, 1974) osserva, scrive e fotografa dal 2000. Laureato in Scienze Politiche, è giornalista professionista dal 2004. Redattore di RioCarnival. Attualmente lavora nella redazione di JobMilano e collabora con Freequency.it Ha lavorato per Panorama Economy, Grazia e Tu (Mondadori), Metro (freepress) e Classix (Coniglio Ed.)