Sicuramente c’è il fascino di vedere in persona la silhouette di tanti clip passati a mo’ di bombardamento su Mtv (beh da noi era Videomusic all’epoca) e anche la perversa voglia di sorpresa e nostalgia per capire come il tempo cambia le icone. Ma certamente quello che Billy Idol e la sua band hanno portato in scena questa settimana a Milano è un grande show imbevuto di rock, anzi, più che rock, siamo ai confini del puro punk.
Lezione di storia: a un certo punto esattamente 30 anni fa il rocker britannico (che aveva partecipato in gran forma alla rivoluzione punk in patria con i Generation X) si “fida” degli americani, scappa in Usa e complice la capigliatura bionda e un fisico mozzafiato (che regge anche oggi a 59 anni) crea la più grande esplosione di attenzione maniacale per un punkettone in America. La mania durò poco, ma la musica è rimasta. E quindi al Fabrique ci sono sì i nostalgici ma anche qualche nuovo adepto che vuole andare indietro, più dei Blink, più del grunge, più dell’hair metal che seguì cronologicamente la Idol-mania.
Billy è stato con Steve Stevens l’anti pop plastificato anni 80 sfruttandone però l’immaginario visivo. Per questo le clamorose sferrate di hits come Cradle Of Love e Rebel Yell sono accolte dal vivo con boati assordanti. È anche piacevole ammirare il ripristino del primato del vero rocker sopravvissuto ai mille eccessi che si materializza davanti agli occhi dell’audience nel 2014. Certo, Eyes Without a Face è stravolta per adattarsi alle mutate capacità vocali, ma quando Billy si dosa per arrivare fino alla fine, ci pensa Stevens ad accendere la folla. È un chitarrista prodigioso che conserva l’aria della peste scappata temporaneamente dai Kiss ma è uno scavezzacollo della chitarra con grande stile. E sui bis di White Wedding aizza i reduci scalmanati preparandoli all’ultima promessa del mito ritrovato: “I’m Billy Fucking Idol, see you next year”.
Christian D’Antonio