Se c’è un termine per definire il disco di cui tutti stanno parlando in questi giorni, il vocabolo giusto è seducente. Beyoncé seduce col sesto disco in studio, Lemonade, pubblicato in sordina come ormai conviene alle grandi star della discografia. Tanto comunque se ne parla, perché la diva esce a tre a tre anni di distanza dalla pubblicazione del suo omonimo album che le aveva fatto fare un bel salto di qualità.
Qui il salto è raddoppiato, perché è coraggioso e inusuale (al disco è abbinato un visual e concept album) e la protagonista lo definisce, con non poca fanfara, “un progetto concettuale sul viaggio di auto-conoscenza e guarigione che ogni donna intraprende”.
I giornali strillano dei temi che affronta la superstar (donne, infedeltà, relazioni) ma a noi è sembrato molto più interessante il viaggio sonoro intrapreso dalla dea del mainstream. Di canzoni introspettive il mondo abbonda, di scelte coraggiose se ne vedono un po’ meno in giro. Lemonade non è il capolavoro che cambierà le sorti della musica ma sicuramente è un disco spartiacque, soprattutto nel modo in cui una certa black music viene prodotta oggi. Jack White, Kendrick Lamar, The Weeknd, James Blake e Diplo si alternano alla scrittura e alla produzione e si sente molto. In vista della data a San Siro il prossimo 18 luglio, vi diciamo su cosa puntare e su cosa investire la vostra memoria.
Pray You Catch Me è un’intensa performance con piano e voce in primo piano: dimentichiamoci delle discoteche e degli inni per ragazzini infoiati.
Hold Up è molto black, sussurrata e minimale con un pattern ritmico inusuale, mentre il tema lirico è abbastanza abusato dalle dive americane (tipo “io son meglio per te”).
Don’t Hurt Yourself feat. Jack White: questo duetto avrebbe fatto la gioia della generazione iPod del primo decennio del 2000, due figure chiave di quel periodo che aggrediscono assieme il microfono. La canzone è difficile, sconfina nel rock, molto suonata, infernale e inafferrabile, bell’atto di coraggio.
Sorry continua l’aggiornamento delle sonorità, lievemente dark e intime, ma anche arrabbiate a tratti.
6 Inch feat. The Weeknd è il vero botto del disco, dove Beyoncé si riappropria della sua verve sexy e sembra sposare a perfezione e con disinvoltura un sound davvero futuribile.
In Daddy Lessons fa capolino l’America anni 40, con fiati e clapping da club fumoso, tanto per farci capire che sa fare anche questo e non teme confronti. Segue un altro gioiello, Love Drought, uno dei momenti più elettronici del disco, in accordo con le ultime tendenze ma anche in perfetto adattamento al mood del disco, con l’esaltazione del lato intimista della comunicativa dell’artista che riesce incredibilmente a farci dimenticare che questo è un lavoro personale. Al punto che potrebbe essere usato dai tabloid per scandagliare la vita privata della star.
Sandcastles è una composizione essenzialmente al piano, e come i lentoni degli anni 80 è adatta alla fine della festa, qualunque essa sia. Qui la diva vuole sollevarci inconsapevolmente dal rimpianto delle perdite nel music biz. La voce viene fuori, s’intende, ma la preferiamo più da musical in duetto con James Blake (Forward) e in Freedom con Kendrick Lamar, quando in un preludio degno di Sergio Leone, con il crescere del pezzo, la cantante trova la vena funk che ci voleva.
All Night ha un’apertura presa in prestito da un gospel che incontra i Blur di metà anni 90,
mentre la conclusiva Formation non aggiunge granché al personaggio ma è un’indicazione precisa di come ultimamente vorrebbe suonare la rivale Madonna. Come sappiamo, a lady Ciccone ultimamente non riesce. Ecco, con questo disco Beyoncé ha dimostrato davvero di poter far quello che vuole. E riuscirci.
Christian D’Antonio