Sono passati 30 anni dal fatidico 13 luglio del 1985, la data che tutti i fans della musica mondiale ricordano come il primo, vero concerto globalizzato della storia. Parliamo ovviamente del Live Aid, l’evento benefico organizzato da Bob Geldof allo stadio Wembley di Londra e allo Jfk di Philadelphia. Quel giorno per chi c’era e per chi no, ha cambiato la storia della musica, ma anche in parte della nostra società, del nostro modo di essere.
Facile a dirlo oggi dopo 30 anni, ma è anche facile dimenticarsi dei primati assoluti di quelle 24 ore. Non dimentichiamoci che 30 anni fa il mondo era ancora uno steccato continuo di divisioni, barriere, linguaggi diversi, in parte solo abbattuti dalla tv via satellite.
Quello che nella storia del costume era accaduto a Woodstock alla fine dei 60s si stava per ripetere nel cuore degli anni 80. Solo che ora c’era la tv in diretta a raccontarlo e unificare nell’immaginario collettivo i quattro continenti. Potenza dell’immagine, si dirà, ma qui la causa non era l’esportazione impositiva di un look da Mtv (che era un affare di stato all’epoca) ma la sensibilizzazione per la fame nel mondo. Le superstar della musica mondiale furono solo un mezzo per far capire che, uniti da intenti positivi e tecnologia, si poteva superare un problema che apparentemente non aveva riguardato da vicino “il primo mondo”.
La potenza del Live Aid in realtà sarà proprio questa: vedere i simboli della colonizzazione dell’intrattenimento fino ad allora considerato effimero, sudare su due palchi in contemporanea per farci venir voglia di aiutare il prossimo. Una contraddizione in apparenza, una sintesi delle antitesi che si scioglieva sugli schermi di due miliardi di persone nello stesso momento in cui andava in onda. Senza internet, senza cellulari e senza le comunicazioni veloci a cui siamo abituati oggi, Geldof e Harvey Goldsmith dimostrarono che nel cuore degli Ottanta, i truccatissimi eroi dei videoclip un cuore ce l’avevano. Poi ovviamente la ribalta ce la ricordiamo anche per gli incontri artistici da sogno che non si ripetettero mai più. Tina Turner e Mick Jagger, Madonna e i Thompson Twins, i Queen e gli U2 che presero un’altra dimensione, i Duran Duran e gli Spandau Ballet che impallidivano di fronte a cotanto impegno sociale. John Taylor, il fondatore dei Duran, lo dice bene: “La pop music è cambiata con il Live Aid”. Uno spartiacque anche per il business, quindi, questo 13 luglio 1985, perché chi c’era e fece bella figura, si impegnò successivamente per dare sostanza a un genere di massa che sembrava aver perso qualsiasi forma di messaggio.
Merito degli inglesi in primis, che spopolavano in quegli anni con la seconda British Invasion. Se si guarda al livello artistico e numerico dei britannici coinvolti, sembra di essere davvero nel mezzo di un’invasione. Band Aid era partita da un piccolo studio di registrazione di Londra sei mesi prima con do They Know It’s Christmas e aveva raggiunto i 12 milioni di dischi venduti. Dopo qualche mese, Michael Jackson e Lionel Ritchie avevano risposto con i 45 partecipanti a Usa For Africa, raggiungendo i 20 milioni di copie di We Are The World, il singolo più venduto degli anni 80.
Il disimpegno morì quel giorno, e l’assenza su quei palchi di Culture Club, Michael Jackson, Cyndi Lauper, Tears For Fears e Depeche Mode era un’indicazione. Nonostante la loro enorme popolarità queste star non capirono, o non rientravano, nel concetto che era alla base del concertone.
Un concetto sfruttatissimo da lì in avanti, ma credeteci, per chi quelle ore le ha vissute, si è trattato di una prima volta romanticamente indimenticata.
Christian D’Antonio